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valentino
catricalà Performare il quotidiano. L’irruzione del reale nell’opera di Giovanni Leto |
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Leto deriva dal greco
“lanthano” che vuol dire “nascondere”. Da qui
deriva il significato di riservato: “che ha del riservo”. Ed è forse, qui, in
un cognome, nel significato di una parola, che si può “nascondere” uno dei
segreti dell’arte di Giovanni Leto. Come è noto, la
caratteristica delle opere di Giovanni Leto è quella di accartocciare dei
fogli di carta – principalmente fogli di giornale – e di costruire con essi,
posti sapientemente all’interno della superficie del quadro, un percorso
visivo. E con lo stesso procedimento anche delle sculture, se così si possono
chiamare. Difficile identificare cos’è un’opera di Leto: scultura, quadro,
installazione... Non è già un qualcosa a metà tra pittura e scultura il
quadro di Leto? Nel momento in cui il “reale” rappresentato dai fogli di giornale
“ir-rompe” nel quadro, crea superficie e
improvvisamente si “inter-rompe” ridivenendo pittura. Una pittura però ormai
inficiata, colpita e mutata da quel “reale”: da quel quotidiano – del “tutti
i giorni” e del giornale vero e proprio – ridotto a grado zero, a mattone,
che strania e colpisce lo spettatore proprio nella sua complessità
traumatica. Il reale che irrompe,
dunque. Questa una delle caratteristiche dell’opera di Leto. Certo non è
sempre stato così, basti guardare alla figuratività astratta degli anni di
formazione, ad opere quali A mio padre (1974) o Terre del fantastico (1972).
Questa dei fogli è, tuttavia, una caratteristica rintracciabile anche prima
degli anni di formazione sedimentata negli anni nella dimensione psicologica
dell’artista: nel ruolo che ha avuto il giornale, e più precisamente il
quotidiano l’Unità, come afferma egli stesso, nella sua storia di infanzia
famigliare. «Ma la storia dell’Unità a casa mia è lunga: una volta letto, era
ripiegato in quattro ed usato a mò di paletta per
ammazzare mosche e fastidiose zanzare; mia madre poi, il cui odio crescente
per quel giornale era infinito, quando non lo gettava direttamente
nell’immondizia, ne riduceva, spesso rabbiosamente, i fogli in torce (quasi
come oggi faccio io) per accendere i fornelli». E, continua, «per me che con
quel giornale ero stato allevato, diveniva invece, dagli Anni Sessanta, lo
strumento che, con i suoi contenuti, mi permetteva di tramutare il mio senso
di vergogna della povertà in passione per le lotte civili, e poi,
dall’ottantacinque, materiale quasi esclusivo con cui realizzare le mie
opere». Da questo punto di
vista, il giornale diviene simbolo di un passato da conservare. I fogli di
giornale si fanno elementi primari di una costruzione che traghetta l’occhio
dello spettatore in un percorso visivo coscientemente costruito dall’autore.
Non un accumulo indifferenziato ma un attorcigliamento che riduce, da una
parte, il foglio a “grado zero della pittura” – parafrasando Barthes –, a mattone indifferenziato con il quale
costruire l’opera; dall’altra esso diviene elemento da proteggere.
L’attorcigliamento più che cancellare, protegge il contenuto: come in un
messaggio nella bottiglia, l’atto dell’attorcigliare consegna la pagina a un
orizzonte futuro, lo protegge da tutte gli accadimenti che dall’85 in poi il
mondo ha vissuto per consegnarlo al tempo. L’85, anno di svolta di Leto,
rappresenta, infatti, storicamente la fine delle lotte studentesche, la crisi
delle ideologie e l’inizio dell’epoca contemporanea. Nascondere per scoprire,
per disvelare la verità, questa la lezione di Leto: è così, per dirla con il
filosofo tedesco Heidegger, che «L’essere inclina
di per sé all’autonascondimento», ed è lì che Leto
ci porta. C’è un elemento,
tuttavia, che non mi sembra sia stato abbastanza notato nelle importanti
critiche scritte su Leto. Un elemento che a mio avviso è il principio motore
di quel nascondersi di cui stiamo discutendo. Oltre il quadro, la scultura,
l’installazione; oltre l’utilizzo dei materiali, e quindi il paragone con
Mimmo Rotella, Alberto Burri; oltre anche la dimensione psicologica, le opere
di Leto sono determinate in primis dall’attorcigliamento: dall’atto,
dall’azione ripetuta dell’attorcigliare. Leto attorciglia – protegge, abbiamo
detto – continuamente fogli, la sua è una performance quotidiana
ripetutamente vissuta nel suo studio. Dietro quei fogli attorcigliati posti
nel quadro o nelle sculture e poi ridipinti e incarnati nella pittura, noi
vediamo una mano, quella dell’artista nell’atto di un ripetuto attorcigliare:
nella voglia, forse, di proteggere qualcosa di prezioso, per lui, per la sua
storia, ma anche per noi, per la nostra storia sociale. Una ripetizione che
non è riproduzione. È questo l’insegnamento di Leto, un insegnamento
fondamentale: forse, l’atto dell’attorcigliare serve a schermare, a
proteggere, un “reale” inteso, per dirla con termini psicologici, come
“traumatico”. Un reale che sfugge quotidianamente e per questo in perenne
mutamento. Solo attraverso l’arte, la “messa in quadro”, possiamo minimamente
avvicinarci a questo “trauma” che, a ben guardare, caratterizza l’esistenza
umana, materia primaria di tutta la migliore arte contemporanea. È qui che,
sicuramente azzardando, l’arte di Leto è vicina all’ossessione ripetitiva di
Warhol o di Sol Lewitt. È qui che gli “Orizzonti”
come Orizzonte alfa (1985) od Orizzonte bianco (1985) oppure Corda (1985) o
la Glaceazione (1988), e così le Fiumare (1988),
gli Abissi (1989) andando avanti sino ai “Racconti di carte”, ci mostrano
nascondendo la verità del quotidiano tentativo di cogliere ciò che
continuamente sfugge. Roma, 18-01-2016 Bibl.: Valentino Catricalà, “Giovanni
Leto Racconti di carte”, ed.
Ezio Pagani – I tascabili dell’Arte, Bagheria, 2016. |
Tensione verticale, 2014. Carta e pigmenti
su tela, cm. 50x50 Ferita, 2015. Carta e pigmenti su tela, cm. 50x60 Archiviazione
1, 2015 Contenitore
in materiale plastico trasparente e carta, cm.
19x19x8
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