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Enrico
Crispolti Medianità cartacee per una geologia d’”altrove”
cosmico |
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Da metà degli anni Cinquanta,
Mimmo Rotella ha usato le stratificazioni collose dei manifesti stradali
quale mezzo della propria imprevista “pittura” (dapprima, nei Cinquanta,
servendosene matericamente, impiegandone infatti la parte celata che è
incollata sul muro, quindi, dall’inizio dei Sessanta, utilizzandoli invece
nei casuali esiti iconici di un libero sondaggio delle sovrapposizioni
operate nel tempo dalla parte dell’immagine). Allo stesso modo, da quasi
vent’anni a questa parte, Giovanni Leto, secondo una metodologia costruttiva
assai originale, si serve di attorcigliate pagine di giornali (e più
raramente settimanali) quale materia protagonista e semiologicamente
determinante delle proprie costruzioni “pittoriche” tridimensionali, appunto oggettualmente cartacee. È un confronto
plausibile purché si regga su una necessaria contrapposizione, che del resto,
se può introdurci subito al cuore della condizione mediale (intesa in senso
di medialità esplicita del mezzo materico ma anche
in senso di medialità implicita, cioè di genesi del
medium in una materia che non soltanto è cartacea ma anche originariamente
massmediale, come appunto il giornale) della condizione mediale, dico, delle
proposizioni di Leto, può tuttavia in qualche misura giovare comunque anche a
un’introduzione nell’universo appunto materico, dapprima, e soprattutto
iconico, poi, del medesimo Rotella. Una volta, se non
ricordo male nel lontano 1972, quando mi fu chiesto di presentare in una
libreria romana, posta di fronte all’Accademia di Belle Arti, il libro Autorotella. Autobiografia di un artista, fresco allora
di stampa, ricordo che sorpresi un po’ tutti giacché, invece che celebrare
quel racconto di avventure, parlai soprattutto del senso intimo del suo
immaginario e di un così anomalo fare “pittorico”, individuato esattamente in
una stupefazione da inurbato, da Catanzaro a Roma, a New York, a Parigi, che
sia stato. L’addensarsi di segni e di immagini sui muri, la continua
meravigliante dinamica della mutazione attiva sui muri metropolitani, sono
convinto abbia costituito per il calabrese Rotella una sorta di imprinting
immaginativo determinante, in un senso appunto di profonda stupefazione. Di
lì sono nate tutte le sue avventure sia di esibizione materica, sia di
manipolazione iconica di implicazione segnica. Il suo “muro” si motiva nella
stupefazione del riscontro urbano, e non è il muro dei segni archetipi e
magici di Tàpies. Le sue immagini interamente
massmediali (quali immagini di dive o di divi cinematografici) conservano
tutta la fragranza dello sguardo del sopraggiunto cittadino, della sorpresa
offerta, allo sguardo del sopraggiunto, dall’immaginoso palinsesto iconico
che s’accampa sui muri metropolitani. |
Triangolo,
1989 Carta su tavola, cm.
112x146 Senza titolo 2,
1986 Carta su tela, cm.
90x100 Abissi più Cerchi, 1989 legno,
carta e pigmenti Veduta d’insieme. |
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Non sono infatti, le
sue disincantate ma desemantizzate immagini di Warhol; non le sontuose figure
macropubblicitarie stradali riscattate
pittoricamente da Rosenquist. Leto utilizza insomma
le pagine di giornali analogamente a come Rotella si è servito di strati di
manifesti murali pubblicitari. Ma confrontabile è forse anche un
atteggiamento che direi sostanzialmente contemplativo. E se lo sguardo di
Rotella risulta esserlo nella misura del contemplare dell’inurbato
metropolitano, la contemplatività che motiva
l’immaginazione di Leto mi sembra diversamente proiettata. Non risulta essere
riflessiva ma direi invece propositiva. Se il fantasticare rotelliano era implicito nella materia o nella
stratificazione iconica che il manifesto dapprima dal rovescio e poi dal
dritto gli offriva, l’iconografia stessa messa in atto dall’immaginare del
siciliano risulta proiettiva non a partire da suggestioni offerte di per sé
dal medium cartaceo stampato ma manipolando questo a configurare una
propria realtà immaginata. E così ci si avvede che, se l’immaginario di
Rotella si alimenta originariamente su uno stupefatto dialogo metropolitano
(appunto con il meraviglioso proposto dai muri della grande città),
l’immaginazione di Leto invece attorciglia i giornali per figurarsi un
fantastico universo geologico, infine sì anch’esso contemplato, forse anche
qui con stupefatta soddisfazione, ma appunto in termini d’immaginazione
geologica, dunque anche arcana. Perché, se mi è concesso proseguire nel
confronto, mentre Rotella in qualche modo si arrende alle suggestioni del
muro, limitandosi a manipolarle, pur sapientissimamente, quanto all’accentuazione
di una loro già intrinseca propositività
espressiva, Leto certamente viene a proporci invece gli esiti di una propria
capacità di manipolazione costruttiva, che si serve del giornale come materia
elementare e persino vile, veramente povera, comune, quotidiana, per farcene
qualcosa di meraviglioso, di sorprendente, in quanto direi icone manufatta,
icone geologica. E tanto più considerando quanto dice nel dialogo con la
D’Elia a proposito della quotidiana frequentazione giovanile de “l’Unità”
quale strumento di crescita per una sua riscattata propria identità personale
sociale, e del contrapposto gesto accartocciante del rifiuto, materno, fino
al destino (subliminale, instintiva ritualità di damnatio
memoriae) nel servirsene per accendere il fuoco del paiolo domestico,
credo che nel gesto costruttivo di Leto sia da riconoscere qualcosa in certa
misura di affine a quello che guida le singolari e spesso fortemente
evocative, e ancor più spesso certamente decorative, costruzioni di
pronunciata oggettualità che spesso i pescatori, utilizzando la loro materia
quotidiana (conchiglie soprattutto), tramano fra spettacolarità meravigliante
e insinuata nostalgia d’un universo marino. Come dire che si serviva del
giornale come d’un materiale di riferimento alla sfera immaginativamente più
allertata del proprio vissuto, altrettanto che il pescatore poteva utilizzare
le conchiglie per trarne eventualità di costruzioni oggettuali meravigliose.
Massmediali d’origine quelle, del tutto naturali d’origine queste. Ma analogo
il processo: quello di usare una materia comune al proprio vissuto per trarne
una spettacolarizzazione iconica, una realtà d’immagine e di cosa
sorprendenti, spiazzanti, suggestive persino d’un “altrove” (come fu
intitolata forse da Giorgio Di Genova una antologica di Leto a Monreale nel
1988). Credo che, nella genesi più intima, il suo gesto costruttivo vada
interpretato in questo modo. Anche se nel medesimo dialogo cita Schwitters come legittimazione della “pratica dei
materiali”, “strumento che consente [dice] ai miei umori di intervenire a
modificare la realtà”, [e aggiunge] “i miei umori tattili con cui non solo
modificare la realtà, ma anche possederla”. Ma prima di Schwitters
per l’uso privilegiato di “materiali” e del tutto empirici, pregni cioè di
memoria d’esistenzialità quotidiana, prima anche di
Rauschenberg, si potrebbe aggiungere, e la sua
oggettualità obsoleta, credo agisca nell’immaginazione di Leto un meccanismo
più semplice e arcaico, e antropologicamente pertinente la propria origine.
Il gesto antico del modificare una materia considerata fra le più consuete e povere nella propria quotidianità:quale
per Leto è appunto il |
Liane, 2002 Materali
vari, h. cm. 220 |
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giornale. Ma non per
testificarne la memoria, al contrario per riscattare, utilizzandolo, una
possibilità d’immaginazione costruttiva ed evocativa: che nel suo immaginario
è anzitutto appunto di allusione geologica. Tuttavia non suoli a
volo d’uccello, come nei paesaggi, urbani o non, dubuffetiani
degli anni Quaranta e Cinquanta. La manipolazione del foglio di giornale, il
suo attorcigliamento offre a Leto il mattone, o meglio la corda di creta del
vasaio o dello scultore (alla Mirko), per costruire attraverso tale materia
elementare, povera, una diversa immagine, un “altrove” iconico soltanto
immaginativamente possibile. Ma concretamente figurato in re dal gesto
manipolatorio che non è soltanto dunque quello, preliminare,
dell’attorcigliare la pagina di giornale ma anche quello, conclusivo, di
stivare per sovrapposizione i singoli elementi cartacei d’attorcigliamento. Restano tuttavia
diverse possibili altre osservazioni da sviluppare. E intanto, se è vero che
l’origine della manipolazione iniziale, l’attorcigliamento, è in rapporto
alla pagina di giornale che prima s’è letta, ad un materiale dunque, carta
stampata ma anche contenuto che questa veicola, quale rapporto esiste fra
questo contenuto e la conclusiva destinazione immaginativa geologica? Mi sono
sorpreso più d’una volta a chiedermi: quelle pagine di giornale Leto le avrà
lette tutte? L’interrogativo è meno insensato e stupido di quanto possa
subito apparire, considerando che nel predetto dialogo Leto dice di avere in
qualche caso consegnato a quelle pagine dei messaggi manoscritti di destino
evidentemente criptico e afasico, salvo a non avere poi l’empio coraggio di
disfare l’opera, come dire di negarsi le soddisfazioni dell’immaginario
geologico, e per rifarsi alla pagina di giornale e all’annotazione aggiunta
che può quella, l’opera, ospitare e tramandare. Alcuni artisti russi di
penultima generazione, che si videro a Roma e a Prato nel 1989-90, alcuni
sotto l’etichetta di “Terza Roma” (come Svetlana Kopystiansky e Dimitri Prigov),
si sono serviti di pagine di giornale, della “Pravda”
in particolare, tuttavia utilizzandole testualmente, servendosene dunque
polemicamente in una prospettiva di contestazione di valenza. Leto invece il
giornale lo riduce a materia, primaria, un po’ come Burri dalla nozione di
“balla” centroitaliana, il tipico sacco agrario tosco-umbro-marchigiano, a
suo tempo arriva alla tela di sacco, materia povera, elementare, deoggettualizzata. Dunque il suo ricorso al giornale è
tutt’altro, non ha più memoria di scrittura o d’immagine, è soltanto materia
che si piega ad una manipolazione sistematica e ritualmente seriale nel gesto
dell’attorcigliamento. E tuttavia il fare di
Leto non mi sembra sia confrontabile con quello di chi si sia servito e
comunque si serva tuttora della cartapesta. Né come operava un Riccardo Dalisi negli anni Settanta (nel quadro del “radicalismo”
architettonico), manipolando parimenti carta stampata ma senza pronunciarvi
un particolare ordine costruttivo, quale quello che ad evidenza regola invece
il fare di Leto, e soltanto attraverso un processo aggregativo di mero
collaggio. Così costruendo oggetti singolari e fantastici, come le sue famose
sedie, per esempio. Ma neppure credo sia confrontabile con i termini nei
quali opera un artista, siciliano anch’esso, che della cartapesta ha fatto da
qualche decennio il medium specifico del proprio operare, figurativo
quanto non-figurativo, quale Rosario Bruno. Che, utilizzando la cartapesta
(il cartone romano) in modo tecni-camente appropriato, e secondo il metodo
tradizionale di macerazione, ecc., ha plasmato appunto in quella duttile
materia, d’antico tramando nell’immaginazione plastica popolare (anzitutto locale,
da Viareggio a Nola a Palermo), consistenti rilievi di figure e più
recentemente di strutture archetipe non figurative. Ma cerchiamo
d’interrogarci meglio su modi e motivazioni del geologico immaginariamente
alluso di Leto. Quando non si risolva affettivamente o passionalmente in un
riscontro paesistico (come lungo il XX secolo, da Lojacono e un altro Leto,
Antonino, a Rizzo, a Guttuso, a Guccione) il
riscontro immaginativo territoriale del siciliano mi è sembrato sempre molto
particolare, nel senso di una percezione territoriale, secondo una proiezione
che da essenzialità archetipa (come la Trinacria) finisce per farsi quasi
cosmica. Non è soltanto il sentire una sorta di deriva o libertà insulare, ma
soprattutto quasi l’immaginare una insularità liberamente flottante, liberata
cioè da ancoramenti cardinali. A volte proprio con un senso di liberatoria
vertigine. Di questo credo partecipi autenticamente l’immaginazione di Leto
nelle sue geologie desertiche. Poco più d’una decina
d’anni fa sottolineavo che quanto mi sembrava prendere la sua immaginazione
fosse una sorta di morfogenesi endogena (peraltro ben plausibile quale topos
archetipo in una terra di vulcani e di solitarie distese), rivelata in
tagli da “spaccato”. E che insomma la carta di giornale reimpiegata offrisse
a Leto l’occasione d’una suggestione materica (ma, s’è visto, anche d’un
mezzo costruttivo di pronto impiego) che è tellurica e siderea insieme. Terre
e paesaggi d’uno stupefatto deserto dei quali l’uomo è quasi un estraneo
spettatore; affidati come sono ad una sorta d’intrinseca solennità, che se un
certo accento drammatico insinua, tuttavia la ludica manipolazione
costruttiva sembra al tempo stesso ironicamente ammortizzare. Ha cominciato
inserendo, all’inizio degli anni Ottanta, elementi materici e collage (carte,
stoffe, ecc.) entro un contesto pittorico di tradizione tipologica informale.
Dopo aver praticato negli anni Sessanta e nei Settanta la pittura, nei
momenti più consapevoli attratto da una sintesi al limite ancora del riferimento
figurativo, in snodi di suggestione narrativa. E in una suggestione
“concettuale” riportata a pratica di manualità, ha dapprima usato la carta di
giornale per fasciare cornici vuote che, anche in parte dipinte, si ponevano
in termini di una presenza oggettuale che adombrava quasi un’ormai scontata
impossibilità di pittura. E a metà degli Ottanta compaiono i suoi
“Orizzonti”, costruiti appunto per sovrapposizione di fogli di giornale
arrotolato. Orizzonti che definiscono appunto “spaccati”, in un’attivazione
immaginativa decisamente geologica. Orizzonti desertici, montani, persino
marini, lungo i secondi anni Ottanta. Operando immaginativamente entro le
stratificazioni del paesaggio (fantasticamente adombrate appunto
dall’accumularsi dei segmenti costituiti dalle pagine arrotolate); di
paesaggi e orizzonti come corporeizzati, sia dunque
nei loro profili, sia appunto nei loro spaccati. Negli anni Novanta poi, nel
lavoro di Leto, un divincolarsi degli elementi cartacei dalla compattezza (a
impatto di muro) dei paesaggi, verso invece una loro accidentalità e quasi
occasionalità, liberamente allora dis-posti, a
tracciato, malgrado altrimenti anche qualche estrema tentazione ancora a
farsi muro, ma in tal caso totalmente occludente. E il foglio arrotolato si fa
dunque strumento di un’ulteriore sua operatività, fra il gestuale e il
segnino. Tentato tuttavia
anche da soluzioni oggettuali e installative, fra
le oggettualizzazioni di “segnali” e “percorsi”, le
installazioni di Palazzo Pottino a Petralia Soprana, e libri come i “Racconti
erotici”, e – recentissimamente – “insegne”, e altrimenti libere liane e
cascate di cordate di elementi cartacei, arrotolati, congiunti, costruiti
sempre di fogli di giornale. Anche se pensa sempre a “racconti aniconici”,
fra carta e pittura, sembra ora che Leto intuisca le possibilità anche
spaziali di una gestualità cartacea, capace sempre, nella sua soggettivata
oggettualità manipolatoria, di suggestioni memoriali archetipe. Roma, febbraio 2003 Bibl.: Enrico Crispolti, Medianità
cartacee per una geologia d’”altrove”cosmico, in Giovanni Leto - Opere
1963 / 2003, ed. Ezio Pagano, Bagheria, 2003 |
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