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Davide
Lacagnina Giovanni
Leto al Museo Guttuso di Bagheria |
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‹‹Entrare
nella mia anima?! Non so se questo luogo (…) esista. A volte mi sento
talmente arido da pensare che se esiste, non può che coincidere con il
deserto, con il vuoto, con una sorta di materia grigia, informe››. Con questa risposta
si apre la lunga intervista di Anna D’Elia a Giovanni Leto (Monreale, 1946)
nel catalogo della mostra che Villa Cattolica dedica ai quarant’anni di
produzione dell’artista. L’affermazione di Leto può valere quasi quanto
un’eloquente dichiarazione di poetica che trova riscontro già nelle opere
degli esordi, nei primi anni ’60, quando il riferimento ai protagonisti
dell’Informale europeo -Afro, Burri, Tàpies, Dubuffet - viene inteso soprattutto come
intenzionalità segnica, a definizione di superfici su cui fare affiorare
irriconoscibili tracce del proprio vissuto quotidiano: La notte
(1963), Paesaggio urbano (1964), o Composizione (1965) sono
accordati su calde tonalità di gialli ocra, rossi cupi e marroni bruciati,
quasi una prefigurazione del bisogno di ancorare ad una consistenza materiale
forte, quasi geologica, il farsi di una ricerca che procede per stratificazioni
progressive di brandelli e stralci di memorie personali. La pulizia astratta
dell’impianto formale dei primi dipinti rimane tuttavia un’acquisizione salda
alle possibilità espressive del lavoro di Leto. Quando, nei primi anni ’80,
rinuncia per esempio, e paradossalmente, alla pittura stessa, per proporre un
azzeramento delle sue opzioni a favore di cornici vuote foderate, dalla forte
presenza oggettuale, prima ancora che di intendimento concettuale. Ed è
proprio in questa direzione oggettuale, è più schiettamente materiale, che
matura a metà di quel decennio il contributo forse più originale di Giovanni
Leto agli svolgimenti della ricerca artistica in Italia nella seconda metà
del Novecento. Inizia infatti nell’85 la serie degli accartocciamenti: variazioni
straordinarie sul tema dei giornali in un utilizzo del mezzo quanto mai
bizzarro, ma efficace dal punto di vista della costruzione artistica. Pagine
e pagine di quotidiani arrotolate su se stesse, manipolate e piegate ad una
sapiente volontà di composizione che nella persistenza di talune proposizioni
–ancora paesaggi, ma soprattutto orizzonti e “marine” di singolare
interpretazione- adombrano contenuti di identità culturale ben precisi,
legati alla ricognizione di tutto un sistema di segni su un territorio, come
quello siciliano, caratterizzato da improvvisi smottamenti -anche di senso-
da incrostazioni minerali, aride distese di terre, infiniti piani di mare. È
forse quella aridità, quella percezione di vuoto, di informe materia grigia
cui faceva riferimento Leto nelle sue parole. È l’esperienza flagrante di un
variabile insulare in cui è la forza della terra a dare ragione ad un bisogno
primario di attestazione della propria indole. Gli accatastamenti di rotoli
qualificano così il tessuto di un orizzonte contro cui si stagliano infinite
campiture piatte di colori forti (ancora rossi e gialli soprattutto), a
controbilanciare il carattere frammentario, residuale, rotto, di una
fisicità potente ma lacerata, bruciante di un’intensa carica esistenziale, ma
quasi destinata a rimanere episodio marginale. Verità sconfitta, ma
trionfante solo per essere riuscita a testimoniare la propria presenza. Bibl.: Davide Lacagnina, Giovanni Leto al Museo Guttuso di Bagheria,
in ExibArt, venerdì 30 gennaio 2004 Exibart,
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Frammento
lavico,
1996, carta e pigmenti su tela, cm.
70x80 Contrappunti, 2001 materiali vari,
cinque elementi, cm.
4x16 ciascuno |
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