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Gianfranco
Labrosciano Giovanni Leto |
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C’è
già nel segno di Giovanni Leto - descrittivo peraltro di un’autonoma forma plastica,
e incisivo e corposo, senza tentennamenti, proprio di chi conosce a fondo
certe regole - un valore di movimento, un’azione, una forza che definisce
brutalmente, biopsicologicamente, direi, il volto
dell’intera opera, dinanzi alla quale un serio atteggiamento critico può
essere dato solo a partire da una visione atomistica in termini di pura
quantità dell’elemento originario, la cui relazionalità dà luogo a vita
organica. Certo
l’indeterminismo, ovvero la ricerca di una relazionalità senza centri di
relazione, e una pratica irriducibile di un comportamento tipico, di una
metodologica scientificità, o meglio di “tecnicità” rivolta all’imponderabile
e all’inafferrabile, postulerebbe un regno del soggettivo non comunicabile e
difficilmente comunicabile. Senonchè risalta un
segno dogmatico: irrefutabile e autogiustificantesi, che escludendo
l’incoerente e il contraddittorio coincide con l’ordine di una verità che
esclude l’errore e diventa verificabile, come una scienza esatta,
nell’organizzazione e nella varietà dei fattori fisici cui si cristallizza. È
questa, a mio avviso, la chiave di accesso alla lettura di un’opera che vive
di una concreta struttura schematica, nel senso di rimemorazione di una
scrittura, o partitura, che richiede una esecuzione specifica prima di
offrirsi all’esperienza del fruitore. Solo allora, dopo scoperta la massima
scientificità del segno, il cui codice narra l’esperienza produttiva, l’opera
assume valore oggettivo traducibile in valore personale. Invero
è il segno, severo, fortissimo, di concatenazione, di contemplazione e di
durata, che rimarca l’immanenza e il divenire dell’opera di Giovanni Leto. È
in base a questo segno che si sviluppa la sostanza immateriale di un aspetto
casale, di un’immagine che contiene in più, come un dono naturale, un
significato di trapasso, di polarità empirica o di una certa metafisica che
sperimenta una forma radicale. Avviene
allora, per montaggio della struttura elementare, cioè del segno, e della sua
autodistruzione per accorpamento, la trasmutazione in una forma che descrive
un’esperienza non storicamente situata, scopertamente e provocatoriamente
unica quanto all’esistenza che alla coscienza, che “buca” le condizioni
definitive che si contraddicono e “apre” nuovi varchi in funzione progressiva
e integrativa della conoscenza. In
altri termini quella di Giovanni Leto è un’opera in cui la stessa ambiguità
non è l’imperfezione della coscienza o della sua esistenza, ma, al contrario,
è la sua definizione. E questa apertura è dovuta al segno, alla prolissità
dell’ordine e del disordine della sua rivalutazione, della sua cifra genetica
che rinnovandosi allarga la percezione del visibile. Altra
cosa è la materia, le sue possibilità formative dovute all’uso della natura
propria del materiale cartaceo, che sottolinea l’incontestabile “concretezza”
d’intervento dalla cui manipolazione e provocazione sorge l’invenzione; altra
cosa è l’uso della scrittura a stampa, riciclata dai quotidiani, con le sue
caratteristiche visive che comportano un “vissuto” filtrato nella nuova
organizzazione formale; altra ancora è la carica e l’energia che questa
morfologia sintattica produce. In
tutti i casi la dinamica del segno genera il suo suono, la sua altezza
ritmica e la sua luce, e la sua meccanica, pur in presenza di processi
aleatori, lavora nel senso di un “buffet pantagruelico” di soluzioni formali
accelerate. Sorgono,
allora, le immagini che altri hanno chiamato “paesaggi” per suggerire
tranquillamente e dottrinariamente al senso comune
una maniera per negare l’ispirazione. In
realtà anche le ondulazioni misurate, le curve sinuose che tagliano da parte
a parte i riquadri, il senso del disegno scrupoloso, e persino certe linee
orizzontali che mostrano lo sfondo di una ferma dolcezza di veduta parlano di
una complessità che sprofonda la visione naturalistica in una “sfida
prometeica” volta a catturare l’universo in una composizione armonica e
totalizzante che un gusto di tipo popolare continua a considerare paesaggio. In
effetti, se proprio si vuole insistere sul termine, l’unica definizione
appropriata è quella di “composizione cosmogonica”, come tendenza di una
pittura in cui la forma e il colore riproducono l’incandescente sensazione
visiva di oggetti brulicanti in un tutto che sprofonda o nell’oscurità o nel
silenzio. E quando la linea orizzontale si spezza, e crolla in rapido
verticalismo, sorgono mondi ruotanti, frammenti di corpi in movimento che i
limiti dello spazio scenico non possono contenere, sicché più che di spazio,
in questo caso, occorrerebbe parlare di spazialismo. È
il senso, per inciso, di quell’iniziale segno in movimento che continua a
seguire le sue orbite, con le sue traiettorie specifiche e il tono garbato di
una colta conversazione strutturale. Solo, la sua natura “chiama” la vita di
una struttura diversa dalla nostra: non alberi, non colline, ma cosmogonie,
mondi frattali che si perdono nell’immateriale condizione di una vertigine e
di una caduta, di un “niente” e di un “nulla” che si disperdono nell’infinito
andare del tempo. Si
delinea così una valenza d’informazione, anche psicologica, di una certa
condizione di sbaragliamento che non evoca altra alternativa che quella di
una profonda solitudine cosmica. E
forse si tratta di altro ancora. Di vertigini e cadute riferibili anche agli
stati d’animo. A un vuoto o a una ferita, una sorta di buco nero aperto nella
concretezza del mondo. In
questo senso, forse, la scelta di campo dell’informale consente un
“modellato” della materia della carta che permette cene trasfigurazioni,
certe rappresentazioni di superfici abrase, quasi amorfe, ruvide e grumose
come una sottile qualità psicologica. In
ogni caso le pieghe della carta, le sue lacerazioni, l’uso di una scrittura
che trascorre e torna, il brulichio di una quotidianità sbrindellata e
ridotta a lacerti di possibilità rivelano, alla fine, una forma che si libera
nell’aria in un processo di sublimazione ascensionale che supera, nello
slancio dell’arte, lo stesso sistema consumistico cui la stessa materia
allude mentre si trasforma in segno stabile, in forma riconoscibile,
simbolicamente risonante. E
dunque l’opera, materica di per sé e ricca di connotati astrattivi, convoglia
nella composizione accordi non materici ma lirici, di brucianti stati
d’animo, velature e sensazioni che alludono a un che di metafisico e di
surreale. Così
la luce, la struttura, il colore, non rappresentano soltanto una sintassi
spaziale e armoniosa, ma producono un effetto poetico in relazione alla
realtà sperimentata sulle superfici che viene realizzata per una sorta di
“sublimazione apocalittica” che non rinvia ad altro se non a quel “fantasma
dell’arte” che scuote la passione dell’artista. G.
Lambrosciano, Giovanni Leto, Galleria Godranopoli, 17-31 Maggio 1998, Misilmeri (PA |
Ondulazioni
2,
1992 carta e pigmenti su tela, cm 60x50 Collezione
privata Ondulazioni, 1992 carta e pigmenti su tela, cm. 60x50 Collezione
privata |
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