Giovanni leto antologia Home / Biografia
/ Bibliografia / Esposizioni
/ Antologia / Opere
/ Album / Contatti |
||
Monica Nucera
Mantelli Paesaggi
in(de)finiti
|
||
Credo si possa dire
che l’arte di Giovanni Leto, con la sua trattazione di “luoghi del ritorno”, -
destituiti da ogni ordine precostituito – rimanda ad un’agorà vuota, deserta,
popolata da figure fantasmatiche, carica di atmosfere metafisiche,
profondamente solitarie. Capolinea assoluto dalla nostra realtà virtuale è
l’orizzonte. Oggi il suo spazio della perdizione è a quello che poteva
rappresentare Giorgio De Chirico nel primo Novecento. L’assenza di patos
emotivo è solo apparente poiché da una certa freddezza nelle landscapes, il fuoco cova bene sotto la cenere, e irrompe
in ripide e viscerali discese verticali, dove il superamento degli spazi crea
volontariamente un senso di profonda inquietudine. Questo tributo alla
madre, Madre Terra, che in Sicilia è crudele e avvolgente, questa risoluzione
intimista della materia – che in Leto, si potrebbe definire “materialismo
mitico istintuale” – ha la sua Matrice nella polisemia segnica del flusso di
coscienza di un altro isolano, questa volta irlandese: lo scrittore James
Joyce. Come già in Morandi, Opalka e
Warhol, la tendenza alla ripetizione, deriva dagli impulsi istintuali
inconsci, responsabili naturali dell’automatismo di ripetizione. Le radici
della creatività affondano nell’inconscio. Dunque è sintomatico che l’arte di
Leto non sfugga ai dettami della ripetizione. Ecco che si spiega la
ritualità, l’accartoccio, il ripetere gesti che appartengono alle origini
familiari, alla madre, alla terra che brucia con la sua calura gli insetti,
come tutte le altre forme di vita. Manipolare questi
salsicciotti combusti, rapportarsi alle cose vere, quotidiane: ecco la
capacità di estraneamento travestita da denuncia
contro la tecnologia, contro gli aborti del progresso. Lavorare con il
quotidiano. Lavorare con il giornale. Si è tanto parlato di
eroismo, di geologia dell’Altrove in Giovanni Leto. Nel suo arrovellamento
spaziale i salsicciotti di cartapesta, gli stracci, le stoffe di qualche
tempo fa sono ferite, di sudore e sangue, pelle di carta sottile a cui
seguirà l’ingiallimento e la decadenza, la trasformazione in rifiuto, in
accumulo stratiforme, in humus bellico che gradualmente si placherà per
lasciar sfogo ad una nuova irruzione. In questo senso Leto è vulcanico,
“pericoloso”. Perché, appunto, nella sua apparente assenza di passionalità si
matura l’angoscia di un urlo paesaggiato di Munch, la crisi
esistenziale di Bacon e Sutherland, la devastazione, la rappresentazione di
destrutturazione e decostruzione delle sue tormentate schegge di carta. Il suo “Orizzonte
trasparente” (1985), piaggio di giornali su fondo in plexiglas, ricorda
un’opera di Jean Francois Bory del 1967, che
apparve per la prima volta nella rivista “Approche”
n. 4 e poi in “Post – Scriptum” (Losfeld ed.) e
l’anno dopo, la risposta di Joseph Kosuth, esposta alla galleria Kunsthalle di Berna* (“When attitude becomes form” = “quando un certo modo di essere diventa una
regola di vita”) ed è se vogliamo, il pastiche con i giornali che
provoca una riduzione ai minimi termini della poesia visuale, dove le parole
aggrovigliate perdono potenza e la “scripta manens” non vale più. Si può ancora aggiungere
un altro parametro alla valutazione dell’opera di Leto: il suo fedele
sviluppo, attraverso la manipolazione di ogni singolo foglio di carta,
straccio o oggetto che sia, di una serie di microsistemi creativi, fulgidi
rifiuti di un’arte debole, selvaggi e cosmopoliti allo stesso tempo. I
giornali, ridotti a mero materiale di recupero, perché non c’è più speranza,
né utopia, ma semmai malinconia umorale, gettata sotto lo sguardo di chi
vorrebbe romanticamente andare verso l’infinito. La monocromia degli sfondi
affonda nelle maree geologiche di Leto, atte a creare una realtà virtuale,
tese al recupero di una drammaticità quasi greca (e qui torniamo all’agorà).
La voglia di prendere e di toccare, la fisicità prepotente, a tratti quasi
erotica, rende, attraverso una paziente ricerca estetica, più vicina la
lontananza tra l’artista e la tela, e , se la realtà
non è romantica, allora bisogna collocare il proprio segno altrove, senza
sapere necessariamente dove; in una terra desolata, in una “No man’s land”. Allora bisogna
catalizzare, omettere, cancellare, bloccare le cose, perché, come dichiara lo
stesso Leto, forte della sua punchline “E’ quello
che non ti spieghi che è importante”. Bibl.: Monica Nucera Mantelli, Paesaggi in(de)finiti, Galleria Free
Art, 1991, Torino |
Abissi, 1989 Materiali
vari su tela, cm. 140x140 Sezione.
1991 Carta, tela, pigmenti, cm. 90x180 |
|